I Solisti Veneti e Claudio Scimone sono stati, per tanti anni, un riferimento importante della mia vita culturale. Le emozioni che ho provato ascoltandoli in decine di occasioni sono fortissime.
Lo stile del Maestro era inconfondibile: elegante, colto, raffinato, un uomo d’altri tempi ed un musicista fenomenale. La sua idea di musica barocca – contraria alla prassi filologica che oggi tanto ammorba le esecuzioni di quella musica – si traduceva in esecuzioni vive, memorabili, entusiasmanti. I suoi Solisti lo assecondavano con dedizione e amore, alternandosi nelle parti principali e dando un vero esempio di cosa dovrebbe significare lavorare divertendosi.
Ricordo il primo concerto in cui li ascoltai. Al Regio di Parma, a metà degli anni Novanta, le Quattro Stagioni con Uto Ughi come solista. Fu un colpo di fulmine: ricordo che a un certo punto il maestro Scimone si girò e chiese un po’ di pazienza al pubblico per un disguido che aveva ritardato l’esecuzione di qualche minuto. Mi colpirono i suoi modi gentili, l’ironia della voce, la caratteristica cadenza veneta. E la capacità di creare un rapporto con il pubblico, unica (non capita spesso che un Direttore si giri e parli direttamente al pubblico: ricordo solo Gustav Kuhn, negli anni d’oro della sua carriera. Per Claudio Scimone era normale farlo).
Altri concerti indimenticabili furono quello di Legnago (con il Maestro che improvvisò un passo di danza con una violinista…), quelli – della domenica – dell’Auditorium Pollini a Padova e l’ultimo – a Rovereto – nel febbraio del 2017, sempre con Ughi (il destino?) e con un Maestro che faceva fatica a stare in piedi ma che – stoicamente – non rinunciava alla sua missione.