Per la prima volta ho messo piede nel teatro Donizetti di Bergamo: l’inaugurazione del Festival dedicato al grande bergamasco è stata un’occasione ghiotta per vedere – tra l’altro – un bel teatro, ristrutturato a regola d’arte. Il Festival – tra spolveri di mondanità strapaesana, iniziative collaterali comme il faut e polenta taragna a volontà – proponeva, in apertura, un Elisir d’amore che – come unico motivo d’interesse, almeno per me – prevedeva la presenza di Javier Camarena nel ruolo di Nemorino.
Non avevo mai ascoltato il tenore messicano, salutato da molti come un fuoriclasse assoluto (“meglio di Kraus”, Oren dixit). La voce è bella ed esce in modo generoso e suadente, ma la linea di canto non mi è sembrata particolarmente ammaliante: la regia gli imponeva – è vero – continue mosse e mossette che sicuramente non lo aiutavano, ma non lo paragonerei in nessun modo ai grandi di altri tempi (e neppure lo avvicinerei allo strepitoso Meli sentito, come Nemorino, a Verona e a Torino o a Florez, peraltro non nel suo ruolo migliore, sentito a Vienna e a Zurigo).
Per il resto, ordinaria amministrazione: la giovane Caterina Sala, studiando e non bruciando le tappe, riuscirà forse a non stridere e forzare in acuto; Roberto Frontali dà quello che può ad un personaggio – Dulcamara – che avrebbe bisogno di ben altro; Florian Sempey rende un discreto Belcore.
Il peggiore della serata mi è sembrato – come già a Barcellona, in Italiana in Algeri, un paio di anni fa – Riccardo Frizza, che invece ricordavo con piacere per un Tancredi fiorentino di parecchi anni fa: tempi serrati, coro sempre in ritardo negli attacchi, disordine generale. Gli strumenti originali, poi, non aiutano (ma a cosa servono?), e le riaperture di tutto il riapribile (e forse di più) peggiorano l’opera.