Tra i tanti Requiem di Brahms ascoltati, uno rimarrà sempre nella mia memoria più per la situazione di contorno in cui lo ascoltai che per l’esecuzione musicale in sè.
Ero a La Paz, in Bolivia, a metà degli anni Novanta. Al Teatro Municipal si dava il capolavoro brahmsiano con i complessi locali, diretto da un direttore tedesco: amo Brahms e considero il suo Requiem tedesco uno dei vertici della musica. L’idea di ascoltarlo a 3600 metri di altitudine mi infiammò.
Così, mi precipitai a teatro.
Subito, mi colpì l’aria dimessa del pubblico: tutti vestiti come se fossero al mercato (probabilmente ci erano stati, prima del concerto, e ci sarebbero ritornati, subito dopo). Poi fu incredibile – per me, abituato al ferreo silenzio dei teatri tedeschi – la gazzarra costante che accompagnò tutta la rappresentazione: grida scomposte, fischi, commenti ad alta voce; molti mangiavano, bevevano e ridevano; sulle note di Herr, lehre doch mich qualcuno iniziò a fischiettare; nel pieno di Selig sind die Toten qualcun’altro si alzò e se ne andò.
Uscii dal teatro esterrefatto e desideroso di rientrare il prima possibile nell’Europa che sa stare in silenzio, ascoltando un capolavoro.
In città, mi fermai qualche minuto ad osservare le alte cime che circondano La Paz e l’immenso fascino delle Ande mi riappacificò con quel mondo: il Sudamerica non mi avrebbe dato molto in campo musicale, probabilmente, ma dalle sue vette, dal suo cuore pulsante, dal suo passato tenebroso avrei imparato comunque moltissimo.