Ricordo ancora quando è arrivata a casa, nell’edizione pregiata del Club degli editori. Era la metà degli anni Ottanta ed io ero agli inizi della mia carriera di lettore vorace.
La storia d’Italia era la mia grande passione, Montanelli il mio idolo, la Storia d’Italia di Montanelli doveva essere qualcosa di straordinario. L’aspettativa era quindi molto grande. Ed in effetti, i diciotto volumi da cui (allora) era formata l’opera non tradirono le aspettative: li lessi d’un fiato e – da quel giorno – li leggo e rileggo periodicamente.
I volumi migliori, quelli da rileggere e meditare, sono per me quelli scritti con Gervaso: L’Italia dei comuni, l’Italia dei secoli d’oro, L’Italia della Controriforma, l’Italia del Seicento, l’Italia del Settecento, l’Italia giacobina e carbonara. Qui la straordinaria coppia di autori tocca vertici stilistici e di contenuto molto alti: si leggano le pagine su Savonarola e quelle sulla Riforma in generale (e sul Calvinismo in particolare) e si capirà cosa significa raccontare, pensare, stimolare.
Dalla lettura delle pagine montanelliane si esce con la voglia di leggere ancora, e ancora, e ancora. Si capisce tanto dell’Italia e dei suoi limiti, delle sue grandezze e delle sue meschinità. Alcuni passi rimangono scolpiti nella memoria: come le pagine su Machiavelli e la grande intuizione che il vero “Machiavelli” fu Guicciardini. Chi mai ha riassunto in modo più compiuto il senso della passione e della sofferenza che pervadono l’opera del Segretario fiorentino, rendendolo così diverso dall’immagine di lui che ci hanno trasmesso i secoli successivi?
I volumi sul fascismo hanno il tocco magico (soprattutto il primo: L’Italia in camicia nera) di chi ha vissuto gli avvenimenti che descrive ed ha la possibilità di parlarne “da vicino”. Il ritratto di Mussolini che ne esce – uomo senza un’ideologia forte, di poche ma centratissime letture, con un’abilità tattica impressionante – è insuperabile per maestria di scrittura, profondità di analisi e acutezza psicologica.
Le critiche che venivano mosse alla Storia d’Italia montanelliana mi hanno sempre fatto sorridere: non ci sono le note, si dice; non c’è evidenza delle fonti. Ora, a parte il fatto che una bibliografia (molto interessante, seppur minima) conclude ogni volume, è chiaro che l’obbiettivo di Montanelli non è quello di informare chi già sa (o crede di sapere), aprendogli nuovi scenarii interpretativi o indicandogli nuove metodologie scientifiche. Il suo obbiettivo è quello di raccontare la storia a chi la storia non la sa, di ricordarla a chi la sa, di stimolare l’uomo colto a nuove letture. E questo obbiettivo è centrato magnificamente.
Devo confessarlo: il mio elisir di lunga vita (intellettuale) si chiama Storia d’Italia di Indro Montanelli: ad essa ritorno quando voglio trovare un interlocutore fidato, sicuro, di gran classe e di prosa superiore. Quando ho bisogno di ritrovare la fiducia negli uomini o quando – accade, seppur molto più raramente – , illuso da qualche gesto o situazione, ho bisogno di riattivare il mio cinico distacco dall’umanità, ritorno a Montanelli come si ritorna a casa, da un amico, con cui si condivide il senso (e il nonsenso) della vita.