Il Kibbutz è un villaggio più o meno grande, organizzato secondo il dettato marxista “a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. Quindi, chi può fare l’operaio fa l’operaio, chi può fare il contadino fa il contadino, chi può fare il giornalista fa il giornalista: nessuno viene pagato per il suo lavoro, tutti ricevono beni e servizi dal Kibbutz (che ne detiene la proprietà) in proporzione all’anzianità, all’ampiezza del nucleo familiare ecc.
Chi vive nel Kibbutz non possiede niente: i pasti si consumano nella mensa comune, se ti serve un’automobile, ne prendi una del Kibbutz per il tempo necessario; se vuoi giocare a tennis, vai nei campi del Kibbutz; se vuoi usare la piscina, il Kibbutz te ne mette a disposizione una molto bella; il Kibbutz ti paga un viaggio all’anno e ti fornisce un certo numero di vestiti. Nessuno, in questo mondo, ha denaro, perché con il denaro non potrebbe fare niente: non ci sono negozi, esistono solo piccoli spacci dove si compra con buoni (dati in base ai parametri già elencati).
Il Kibbutz è l’unica realizzazione in terra del principio di vita comunista, almeno l’unica volontaria (l’altra, il Kolchoz sovietico, è stata fortemente costrittiva) ed è il risultato della spinta ideale (sionista, non religiosa) degli ebrei fuggiti dall’Europa subito dopo la guerra: professori, medici, avvocati, poeti che hanno lasciato tutto e sono andati a zappare la terra in Palestina. Esempio supremo di slancio ideale e di passione! Oggi è un modo di vivere considerato un po’ fuori moda, ma ancora abbastanza diffuso, in Israele.
A fine estate 1997, alla vigilia del mio secondo appuntamento con la laurea, passai un paio di mesi ad Hazorea, uno dei Kibbutzim più grandi (circa mille persone) della Galilea, a pochi chilometri da Nazareth. Per due mesi entrai nel meccanismo del Kibbutz e ne condivisi i principi di vita.
Avevo due obbiettivi: sperimentare la vera vita comunista per capirne (io che comunista non ero) vantaggi e svantaggi; mettermi alla prova in un lavoro manuale, cosa che – verosimilmente – non avrei più potuto fare nel futuro.
Fui inserito in cucina, come aiuto: dalle 6,30 alle 14 tagliavo cosce di pollo, friggevo carni varie, giravo pentoloni di riso, pulivo celle frigorifere… ricordo l’avidità della colazione (alle 8, con i corn flakes disponibili solo il lunedì) e la pausa delle 11, con un’anguria (senza semi) che uno dei cuochi tagliava con suprema maestria (via le due estremità, sbucciata e fatta a fette). Eravamo una decina, coordinati da due capo cuochi, e preparavamo circa mille pasti al giorno. Naturalmente, i commensali mangiavano quello che NOI decidevamo: la possibilità di scelta non esisteva.
Nel pomeriggio, normalmente, fuggivo in piscina, dove ritrovavo un ambiente a me più familiare: in quelle settimane leggevo – ricordo – i Buddembrook, forse per bilanciare, con l’ambientazione borghese ed il clima nobile del romanzo, l’ambiente pauperistico in cui mi trovavo.
La convivenza con un ebreo russo, nella stanzetta a due letti in cui fui sistemato, si rivelò alquanto turbolenta. Era un ragazzo più giovane di me che… viveva con un topo. Quando arrivai gli chiesi di chiuderlo da qualche parte, almeno di notte ed egli per un po’ mi accontentò, ma mise in giro la voce che io non amavo gli animali. Di questo tipo di stranezze il Kibbutz era pieno. Tra gli ospiti temporanei, i tipi più comuni erano i russi che volevano entrare in Israele e che passavano lì qualche mese, in attesa che la situazione si sbloccasse; poi c’erano i sognatori o chi, semplicemente, aveva trovato un posto (non troppo faticoso: la cucina era il lavoro meno ambito, perché più duro. Altri lavori erano generalmente molto più leggeri) dove aspettare che la sua vita prendesse una direzione nuova.
Il venerdì pomeriggio prendevo l’ultimo bus per Tel Aviv e – fino al sabato sera – vivevo alla occidentale: spendevo soldi, frequentavo hotel, mangiavo ciò che volevo. Visitai Gerusalemme, Masada, il mar Morto, il Golan, il lago di Tiberiade, Betlemme, Nazareth, San Giovanni d’Acri. La domenica mattina – riposti i soldi in cassaforte – riprendevo la vita comunista.
Pur nell’eccitazione per il nuovo che scoprivo quotidianamente, dopo qualche settimana iniziai a stancarmi: mi sembrava che mi mancasse qualcosa. Probabilmente mi mancava la possibilità di scelta cui noi siamo abituati: nel Kibbutz non si sceglie quello che si mangia, non si sceglie cosa vestire, non si sceglie il colore dell’auto, non si sceglie dove e quando andare in vacanza. Iniziai a riflettere sul fatto che la chiave del successo del modello capitalista su quello comunista risiedesse, forse, proprio in questo.
Me lo confermò B., una ragazza italiana poco più vecchia di me. Qualche anno prima aveva fatto la mia esperienza e si era innamorata di un abitante del Kibbutz molto più vecchio di lei. Si era sposata, aveva avuto due figli e si era trasferita definitivamente ad Hazorea. “Pensavo – mi disse – che un mondo mi si sarebbe aperto e fu in effetti così. Solo che, subito dopo, quel mondo mi si è richiuso improvvisamente davanti”.
Ancora più interessanti furono le scoperte sul fronte del lavoro manuale: fui uno stacanovista, ligio al dovere, puntuale ed affidabile (qualità rare, tra i volontari del Kibbutz) e mi guadagnai un elogio pubblico, alla fine del periodo, da parte di uno dei capi cuoco. L’altro, un beduino in servizio esterno, mi coinvolse addirittura in un’attività esterna al Kibbutz, di cui parlerò in un’altra occasione.
Alla fine fui felice, insomma, di chiudere un’esperienza istruttiva, emozionante e unica. Presi l’aereo per tornare in Italia senza rimpianti: il comunismo (ed il lavoro manuale) mi avevano affascinato ma non convertito.
Hazorea, addio!