Ande

Il fascino delle Ande, per noi Europei, abituati agli spazi angusti del nostro continente, è immenso: le altitudini, la vastità, l’imponenza dei paesaggi. Ci sono stato in diverse occasioni, ma di due visite serbo un ricordo particolare.

Nel 1997 raggiunsi febbricitante Machu Picchu dopo aver percorso per quattro giorni il camino Inca, l’unica via di accesso storica alla città sacra. Partendo da Cusco e toccando i 4200 metri di altitudine, tra scenari mozzafiato e Indios che guardano con curiosità, si percorre uno dei percorsi di trekking più famosi al mondo. Ricordo, alla partenza, la folla di giovani che chiedevano di essere assunti come portatori (per pochi dollari, avrebbero portato in spalla le attrezzature, gli zaini, le vettovaglie), il vento sferzante a latitudini estreme, il disgusto di non potersi lavare decentemente dopo una giornata di cammino. E poi l’arrivo a Machu Picchu, con sentimenti contrastanti: gioia, rispetto, entusiasmo per la maestosità della posizione e la sacralità del luogo, rifugio ultimo di una civiltà morente; delusione per l’inganno di vedere rovine per la maggior parte ricostruite, non originali.

L’anno prima avevo soggiornato lungamente in Colombia e visitai Jardin, perla nascosta nella cordigliera centrale. Per arrivarci, avevamo percorso tre ore di macchina da Medellin, attraverso stradine di montagna, immense pianure verdeggianti, paesi dove il tempo – come capita spesso, in America latina – sembrava essersi fermato al secolo precedente. Lungo il tragitto incontrammo un posto di blocco ed un militare, armato di tutto punto, ci chiese i documenti. Era un giovane indigeno, dai cui tratti somatici trasparivano innocenza, povertà, dignità.

Dopo avere scrupolosamente controllato patente e libretto, ci disse che stavamo entrando in una zona dove non c’era il controllo dello Stato e lo facevamo a nostro rischio e pericolo. In parole povere, entravamo in un’area dove prevaleva la guerriglia (le FARC, in quegli anni, di fatto governavano ampie parti delle zone rurali della Colombia). I miei compagni di viaggio – colombiani – gli chiesero qualche indicazione pratica e, durante la breve discussione, evidentemente per chiarire meglio un concetto sfuggito ai suoi interlocutori, il militare ribadì: “nosotros somos el ejercito!”. Ricordo l’espressione del viso, nel momento in cui lo disse: sembrava sottintendere che – nel gioco delle parti della vita – in quel momento lui era l’esercito, ma avrebbe potuto benissimo essere la guerriglia.

In quel viso per tanti anni vidi rispecchiato il Sud America, con le sue incertezza, le sue meschinità, le sue doppiezza. E, nello stesso tempo, la sua spensierata e grandiosa innocenza.

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