The History of the Decline and Fall of the Roman Empire

“Ogni storia è storia contemporanea”, diceva Benedetto Croce. Nel senso che l’origine della ricerca storiografica parte sempre – secondo lui – dall’esigenza di capire il presente. Non era probabilmente solo questa la chiave di lettura che – alla fine del Settecento – spinse Edward Gibbon a dedicarsi, per vent’anni, all’ultimo periodo della storia romana ed a concepire quel monumento di cultura, raffinatezza, umanità e sapienza che è la Storia della decadenza e della caduta dell’impero romano. Gibbon – beato lui – viveva in un tempo di certezze, di crescita costante: la molla per dedicarsi alla storia dell’ultima parte dell’impero romano, in lui, nacque soprattutto dalla voglia di sapere, di verificare (“Fu tra le rovine del Campidoglio che concepii l’idea di un’opera…”, pag . 2847), di bearsi tra le ricchezze e le miserie degli antichi uomini.

Ma noi? Che cosa significa per noi – oggi – rivivere i secoli sempre più bui che da Traiano scendono giù giù fino a Maometto II, se non leggere un libro sulla nostra decadenza? Chi non collegherà immediatamente la perdita costante di afflato morale, di forza, di moralità che caratterizzò quei tempi con il nostro stato attuale? In questo senso, posso dire di avere appena finito di leggere un libro di cronaca contemporanea.

Della monumentale opera di Gibbon avevo già letto diversi sunti, ma mai l’edizione completa. Ho colmato adesso la lacuna, leggendo le quasi tremila pagine scritte a fine Settecento nei tre volumi dell’edizione Einaudi del 1967, trovati in una piccola libreria di Palermo nel marzo di quest’anno.

Che poesia, che respiro, che sapienza! Leggere Gibbon trasmette un senso di equilibrio, di pienezza, di sicurezza che ci dicono tanto del suo tempo e di lui, ancora prima di parlarci del tempo che lui ci descrive. Gibbon descrive i grandi tempi passati ma tiene gli occhi ben aperti sugli sviluppi che – di secolo in secolo – hanno portato avanti la civiltà europea.

Il la a tutta l’opera viene dato subito:

Chi dovesse stabilire, nella storia universale, il periodo nel quale la condizione degli uomini fu più prospera e felice, dovrebbe senza esitazione indicare quello che corse dalla morte di Domiziano all’avvento di Commodo. Il vasto impero romano era governato da un potere assoluto, sotto la guida della virtù e della sicurezza. Gli eserciti furono tenuti a freno dalla mano ferma ma moderata di quattro successivi imperatori, il carattere e l’autorità dei quali imponevano spontaneo rispetto. Le forme del governo civile furono gelosamente conservate da Nerva, Traiano, Adriano e dagli Antonini, i quali godevano dell’immagine della libertà e si compiacevano di considerarsi ministri responsabili delle leggi.

E ancora, parlando di Antonino Pio e Marco Aurelio:

questi due regni sono forse il solo periodo della storia, nel quale la felicità di un grande popolo sia stata l’unico oggetto di chi lo governava.

Partendo da queste vette non si poteva che scendere miseramente, anche se Gibbon non dimentica mai di illuminare anche i periodi più bui da lui narrati con le sfolgoranti personalità che – di tanto in tanto – sono comparse sulla scena mondiale:

Gli annali dell’impero presentavano un forte e vario quadro della natura umana, quale noi invano cercheremmo tra i confusi e indecisi personaggi della storia moderna. Nella condotta di quei monarchi si possono scoprire gli estremi del vizio e della virtù, la perfezione più sublime e la più bassa degenerazione della nostra specie.

E Gibbon li segue tutti, i protagonisti del declino, nelle loro grandezze e miserie:

Marco Aurelio: I vizi mostruosi del figlio hanno gettato un’ombra sulle virtù del padre (…) Marco Aurelio pareva insensibile ai disordini di Faustina, o il solo in tutto l’impero che li ignorasse; ed essi, per il falso pregiudizio di ogni tempo, gettarono un certo disonore sul marito tradito. Egli promosse molti amanti di lei a cariche onorevoli e lucrose e per trent’anni le diede prove invariabili della più affettuosa fiducia e di un rispetto che non terminò che con la vita della moglie. Nelle sue Meditazioni, Marco Aurelio ringrazia gli dei di avergli concesso una moglie così fedele, così amabile e di una semplicità di costumi tanto meravigliosa.

E in nota, Gibbon sorride malizioso: Il mondo ha riso della credulità di Marco Aurelio, ma la Dacier ci assicura (e come donna le possiamo credere) che il marito sarà sempre ingannato se la moglie sa dissimulare.

Commodo: fu il primo imperatore romano privo affatto di gusto per i piaceri dello spirito

Diocleziano: nell’anno ventunesimo del suo regno, Diocleziano attuò la sua memorabile decisione di abdicare all’impero; atto che era più naturale attendersi dal più vecchio o dal più giovane degli Antonini, che da un principe che non aveva mai praticato le lezioni della filosofia nell’acquisto o nell’esercizio del supremo potere. Diocleziano ebbe la gloria di dare al mondo il primo esempio di una rinunzia, che non è stata molto frequentemente imitata dai posteriori monarchi.

Boezio: il senatore Boezio è l’ultimo Romano, che Catone e Cicerone avrebbero potuto riconoscere come loro concittadino

Oltre alle grandi personalità, il suo occhio vigile non dimentica mai i grandi affreschi, i movimenti culturali, i fermenti religiosi. E così, le ragioni più profonde della decadenza dell’impero vengono individuate nella perdita di valori, di afflato morale, di tradizione, di ordine:

era quasi impossibile che l’occhio dei contemporanei scoprisse nel benessere generale le cause latenti della decadenza e della corruzione. Quella lunga pace e il governo uniforme dei Romani inocularono un lento e segreto veleno nelle parti vitali dell’Impero. Le menti degli uomini si ridussero a poco a poco allo stesso livello, si estinse il fuoco del genio e svanì perfino lo spirito militare

I pretoriani, la cui sfrenata licenza fu il primo sintomo e a rima causa della decadenza dell’impero romano (…) introducendo i pretoriani per così dire nella reggia e nel senato, gl’imperatori appresero loro a conoscere la propria forza e la debolezza del governo, a considerare i vizi dei loro sovrani con familiare disprezzo, e a perdere quel timore reverenziale che soltanto la distanza e il mistero possono conservare vero un potere immaginario (…) quei sodati effeminati abbandonarono la difesa propria e quella del paese, e la loro pusillanime indolenza si può considerare come la causa immediata della caduta dell’impero.

Poiché la felicità d’una vita futura è il grande oggetto della religione, possiamo sentire senza sorpresa, o scandalo, che l’introduzione, o almeno l’abuso, del cristianesimo, esercitò un certo influsso sulla decadenza e caduta dell’impero romano. La chiesa predicò con successo la dottrina della pazienza e della pusillanimità, le virtù attive della società furono scoraggiate e gli ultimi resti dello spirito militare andarono a seppellirsi nei conventi.

Grande libro di storia, quello di Gibbon, e grande libro di cultura, in senso lato, scritto subito prima che il mondo antico cadesse sotto i colpi della ghigliottina. Gibbon presagisce, in qualche modo, quella fine e rende omaggio al suo mondo, che era poi il mondo nato dalla civiltà romana:

Tra le forma di governo vigenti nel mondo, la monarchia ereditaria pare offrire il miglior bersaglio al ridicolo. E’ possibile dire, senza un sorriso di sdegno, che alla morte del padre la proprietà di una nazione passi come un armento al figlio bambino, ignoto agli altri come a se stesso, e che i più prodi guerrieri, i più saggi statisti, rinunciando al loro naturale diritto al dominio, si accostino alla culla reale con le ginocchia piegate e dichiarazioni di eterna fedeltà? La satira e la declamazione possono rappresentare questi ovvi argomenti coi più brillanti colori: ma noi, con maggiore serietà, rispetteremo l’utile pregiudizio, che stabilisce una regola di successione indipendente dalle passioni degli uomini e approveremo pienamente qualsiasi espediente, che tolga alla moltitudine il potere pericoloso, e meramente ideale, di eleggersi da se stessa un padrone

Già i suoi tempi, a ben guardare, non lasciavano intravvedere niente di buono.

E il pianto di Cola di Rienzo, ultimo epigono delle grandezze romane, diventa allora il grido di dolore di tutti i secoli successivi, Settecento incluso, giù giù fino al nostro ludibrio:

Dove sono oggi i Romani? Dove le loro virtù, la loro giustizia e potenza? Perché non nacqui in quei tempi felici?

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