Schopenhauer, l’inattuale

Da studente, per tanto tempo ho diffidato di Arthur Schopenhauer: da scolaro, anzi da scolaretto di Croce, mi sentivo attratto – istintivamente – dal mondo hegeliano e da tutto quello che da lì discendeva. Denunciare – contro Hegel, Schelling, e Fichte – la netta differenza tra ideale e reale, mi sembrava una scorciatoia poco rassicurante, mentre mi sentivo a mio agio – forte, sicuro, vincente – nella panacea del processo dialettico hegeliano, che riconduce, per dirla con De Sanctis, ” il reale e l’ideale nell’abisso dell’assoluta identità”.

Il fascino di quell’approccio non è ancora sparito del tutto. Ma il tempo passa, gli anni avanzano e – con gli anni – la prospettiva cambia o, almeno, si amplia. Ho voluto rileggere (in parte leggere per la prima volta) Il mondo come volontà e rappresentazione e i Parerga e Paralipomena e la mia idea di Schopenhauer non è più la stessa.

Alcuni passi suonano alle mie orecchie, oggi, come musica perfettamente intonata:

E’ davvero incredibile come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l’umanità. E’ un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento di una fila di pensieri triviali. Gli uomini somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta che un uomo viene generato e partorito, è l’orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo breve sogno dell’infinito spirito naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all’immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre

O, ancora:

La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia . Imperocché l’agitazione ed il tormento della giornata, l’incessante ironia dell’attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d’ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene di commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranza calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservare la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi di commedia

Che cosa mi piace, di Schopenhauer?

In primo luogo, l’approdo finale proposto dalla sua filosofia – il distacco dal mondo, il “mettersi al di sopra della vita” (De Sanctis) – si avvicina molto a quello che sempre di più mi sembra un approdo naturale, il leopardiano “colà dove il tanto affaticar fu volto”. Chi vi è arrivato può godere di un panorama speciale: nulla più perviene ad angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila del volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere e affliggere anche l’animo suo, ma ora gli stanno innanzi indifferenti come i pezzi di una scacchiera a gioco finito, o come al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale.

Il modo di arrivarci, poi. L’obbiettivo è sconfiggere la volontà di vivere, vero scoglio, nell’uomo, per la completa liberazione: tra il volere ed il conseguire trascorre intera ogni vita umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà; la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è la battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno (…) la sua (dell’uomo) vita oscilla come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi

Ogni tentativo di sconfiggere la volontà sembra vano:

Gli incessanti sforzi di bandire il dolore non servono che a mutarne l’aspetto. Questo è dapprima mancanza, bisogno, ansia per la conservazione della vita. Quando sia riuscito, il che è assai difficile, lo scacciare il dolore in questa forma, ecco che tosto si ripresenta in mille altre, variando secondo età e circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità ecc. E se finalmente non riesca a trovare nessun’altra forma, viene sotto la malinconia, grigia veste del tedio e della noia

Come uscirne, allora?

Le vie indicate da Schopenhauer per liberarci dalla schiavitù della volontà di vivere, in un crescendo virtuoso, sono la contemplazione estetica, la compassione (ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo) e la santità. L’ascesi finale si raggiunge attraverso la castità, la povertà e, infine, la morte (le pagine sul rifiuto del suicidio, affermazione suprema della volontà di vivere, non sua negazione, sono tra le più intense del Mondo).

Ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo è appena simile all’elemosina che oggi tiene in vita il mendico perché domani ancor soffra fame. La rassegnazione somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per sempre il possessore da tutte le angustie

Tutto semplice, quindi? Non proprio: la filosofia schopenhaueriana è una filosofia per pochi. In ogni passo del Mondo e forse ancora di più dei Parerga, emerge con chiarezza che solo chi ha predisposizioni intellettuali particolari può percorrere la strada dell’ascesi.

Lo ha bene intuito Nietzsche che, nella terza Considerazione inattuale, separa l’uomo schopenaueriano dagli altri uomini: “l’uomo schopenhaueriano prende su di sè il dolore volontario della veridicità, e questo dolore gli serve per uccidere la sua volontà personale e per preparare quel completo rovesciamento e conversione del suo essere, il cui raggiungimento costituisce il vero e proprio senso della vita. Questa proclamazione della verità appare agli altri uomini un prodotto della cattiveria, giacché essi ritengono che la conservazione delle loro mediocrità e fandonie sia un dovere di umanità e ritengono che si debba essere cattivi per distruggere in quel modo i loro giocattoli”.

In effetti, in ogni riga di Schopenhauer traspare il suo senso elitario, il suo dividere gli uomini in superiori ed inferiori, e financo un disprezzo per i suoi simili.

la virtù della modestia è davvero una notevole invenzione per i pezzenti, perché secondo tale virtù ognuno deve parlare di sè come se anch’egli fosse uno straccione: ciò livella mirabilmente, tanto che alla fine si ha l’impressione che non esistano in generale se non dei pezzenti

mentre la natura ha stabilito fra gli uomini la più grande diversità morale e intellettuale, la società li pone tutti sullo stesso piano, senza considerare affatto tale diversità, sostituendo piuttosto ad essa le differenze e i gradi artificiosi della classe sociale e della posizione, spesso diametralmente opposti alla gerarchia della natura

Le pagine dei Parerga in lode della solitudine – che si raggiunge, in modo perfetto, solo verso i sessant’anni – sono tra le più alte mai scritte: superati l’attrattiva per le donne e l’impulso sessuale (la tendenza più forte alla socievolezza), superate mille illusioni e stoltezze, terminata la vita attiva, si è circondati da individui estranei, si è ormai oggettivamente ed essenzialmente soli:

frattanto la fuga del tempo si è affrettata, e lo si vorrebbe ancora utilizzare spiritualmente. Purché infatti il solo cervello abbia mantenuta la sua forza, ora le molte esperienze e conoscenza ottenute, la rielaborazione compiuta successivamente di tutti i pensieri e la grande facilità nell’esercizio di tutte le forze spirituali rendono lo studio di qualsiasi genere più interessante e più facile che mai. Si vede chiaro in mille cose che erano prima avvolte come da una nebbia: si giunge a dei risultati e si sente tutta quanta la propria superiorità. In seguito ad una lunga esperienza, non ci si attende ormai più molto dagli uomini, dal momento che essi, presi in complesso, non appartengono alle cose che acquistano con l’essere conosciute più da vicino: si sa piuttosto che, a prescindere da rari casi fortunati, non si incontrerà mai nulla all’infuori di esemplari imperfetti della natura umana, che è meglio passare sotto silenzio

E’ questo, alla fine, lo Schopenhauer che forse mi piace di più. La sua inattualità è stridente: inattuale, Schopenhauer lo fu nel suo mondo, dominato dalla fede nelle magnifiche sorti e progressive; lo è oggi, in un mondo che tutto appiattisce, livella, uniforma. Lo fu vedendo nel popolo una belva da incatenare e desiderosa di essere incatenata, lo fu nel fare testamento, quando lasciò un fondo all’Istituto berlinese per il soccorso dei soldati caduti nel 48 per ristabilire l’ordine contro la miserabile sommossa della plebaglia scatenata, lo fu nella concezione dello Stato – antihegelianamente “minimo” – che doveva garantire solo la sicurezza, la proprietà, l’ordine.

Per l’interiorità dell’uomo, le strade erano altre.

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