Il Gattopardo

Del Gattopardo posseggo la prima edizione, del 1962. E’ un ricordo della mia cara mamma che lo lesse, evidentemente, nel momento culminante del suo successo e me lo lasciò, come un libro “da leggere”.

Ci sono libri che, anche se non si frequentano assiduamente, entrano immediatamente nel cuore del lettore e ne segnano, in qualche modo, il cammino: così è, per me, con il capolavoro di Tomasi di Lampedusa.

Lo ho letto per la seconda volta in questi giorni (la prima risale agli anni Ottanta) e mi sono sentito nel posto giusto: il senso di “ritorno a casa” di cui parla Schiff per la musica di Beethoven si è impadronito di me fin dall’incipit, così caratteristico.

Non mi interessa la sua sicilianità, che mi sembra d’occasione. Nel Gattopardo, io vedo il libro della nostalgia, del rimpianto, della compassione.

Nostalgia, per un mondo che non c’è più (e che forse non c’è mai stato), del quale si è amato tutto e che coincide, inevitabilmente, con la nostra giovinezza; rimpianto, per quello che nel corso della vita, un guizzo nell’eternità, si sarebbe potuto fare ma non si è fatto; compassione, verso noi stessi ed i nostri simili, destinati ad un declino costante, ad un immiserimento continuo, esemplificato magistralmente dal crollo sociale di casa Salina.

I soli punti fissi, sembra suggerire Tomasi, sono le stelle (grande passione del Principe) e gli animali, con la figura del cane Bendico´ che, in qualche misura, vuole essere il fil rouge del romanzo.

Semplificativo? Prende “un caso” e ne fa letteratura (come gli rimproverava Montanelli)?

Può darsi, ma chi può, a cinquant’anni, dargli torto?

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