Il deserto dei Tartari

Ho un rapporto particolare con il deserto dei Tartari. Da un lato, trovo difficile la prosa di Buzzati, il suo modo di scrivere, di raccontare, di ambientare; non mi risulta immediato seguirlo nelle sue nuvole, lontano dalla storia, dalla vita, dalle passioni; dall’altro lato, credo che il suo capolavoro sia la migliore rappresentazione possibile di quello che la vita ci offre (e ci nega): da nessuna parte, come nelle pagine pulite, nette, profumate di Buzzati, sento palpitare il dramma dell’uomo che aspetta tutta la vita qualcosa che non arriva. Il dramma dell’uomo tout court, quindi.

La forza dirompente del romanzo cresce, inevitabilmente, con l’avanzare dell’età del lettore (e meraviglia che l’autore abbia concepito il libro a poco più di trent’anni, segno chiarissimo che talento e maturità sono raramente un fatto anagrafico): io stesso, rileggendolo in questi giorni, ho avuto momenti di profonda commozione, ben differenti da quelli avuti nel 1988 e nel 2010, in occasioni delle due mie precedenti letture.

Nessuno, credo, ha mai riassunto meglio il senso – perduto – della vita, l’oscillare incessante tra l’ieri – bellissimo ma irreale – e il domani, irraggiungibile.

Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!”si vorrebbe gridare, ma si capisce che è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai

Fino all´ora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’ orizzonte con sorrisi d’intesa; così il cuore inizia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno.

…e se avesse veramente sbagliato? Se lui fosse un uomo comune, a cui per diritto non tocca che un mediocre destino?

E Giovanni Drogo rappresenta tutti noi, smarriti, incerti, sconfitti, sulla strada della vita.

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