Todos caballeros!

E’ di oggi il grido di dolore della Scuola Normale Superiore di Pisa. “Una delle criticità da affrontare – ha dichiarato il Direttore – è la sempre più alta estrazione sociale dei nostri allievi. Sempre più spesso i normalisti sono figli di genitori laureati, di insegnanti e di altri professionisti. Prima non era così”.

Teoricamente, il fatto che un allievo sia eccellente e quindi ambisca ad entrare in Normale non dovrebbe avere una connotazione classista: che sia ricco o povero, bello o brutto, alto o basso, maschio o femmina, non dovrebbe interessare a nessuno. Capiamo però la preoccupazione del Direttore e l’ansia di scoprire – per la sua scuola – i migliori studenti, non sacrificando i meno abbienti; e il fatto che i talenti si trovino sempre meno tra questi ultimi gli puzzi un po’.

Per risolvere il dilemma gli sarebbe sufficiente, però, osservare da vicino la politica scolastica degli ultimi sessant’anni e la conseguente situazione del mercato del lavoro. Avrebbe risposte non solo al problema della Normale, ma – in generale – ai problemi dell’Università dove non si iscrive più nessuno, della cultura e dell’eccellenza.

Dagli anni Sessanti in poi, tutti i governi hanno lavorato in una sola direzione: rendere l’università, l’eccellenza a portata di tutti. Liberalizzazione degli accessi, nessun obbligo di frequenza, polverizzazione delle sedi, impossibilità (o quasi) di bocciare; le follie del Sessantotto sono state, di fatto, il detonatore di un movimento culturale, sociale, politico che ha regnato incontrastato per decenni. Ma l’idea che abbassare il livello, facilitare, alleggerire serva a dare a tutti la possibilità di salire è ridicola e – in ultima analisi – falsa. Crea proprio quello che chi la propugna vorrebbe evitare, la scuola dei ricchi.

Infatti, dopo decenni di lavoro coerente e organico in questa direzione, il risultato qual è?

I laureati che trovano un lavoro guadagnano meno dei loro padri, che erano diplomati, con la differenza che questi ultimi erano contenti, avevano una vita piena e ambizioni per il futuro; i figli, invece, sono frustrati, infelici e senza prospettive, perché dopo anni di sacrifici e impegno guadagnano meno del vecchio padre diplomato e non più dell’amico semianalfabeta. Chi me lo fa fare?

I laureati iniziano a lavorare più tardi degli altri, spesso cambiano sede, fanno sacrifici, ma poi non hanno nessuna “certezza” di fare carriera, al contrario dei loro padri diplomati che – cinquant’anni fa – una volta ottenuto il diploma ed iniziato a lavorare, potevano quasi sicuramente confidare in un carrierone davanti a loro. Ancora, chi me lo fa fare?

E’ chiaro che di fronte a questo scenario (“Chi me lo fa fare?”), i giovani meno abbienti preferiscano, anche se talentuosi, dirigersi immediatamente verso il mondo del lavoro, senza “perdere tempo” a studiare, e che ad affinare gli studi vada solo chi vi è spinto da situazioni familiari favorevoli o da pressioni sociali forti.

Seminate todos cabelleros?!……avrete la scuola delle elites.

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