I promessi sposi

E’ difficile, per me, parlare dei Promessi sposi. Li rileggo, periodicamente, da tanti anni e ogni volta qualcosa di nuovo, di non visto prima, emerge con forza e illumina di nuova luce questo capolavoro immortale. E’ questo – d’altra parte – il significato del concetto di classico.

La riconciliazione con il mondo e con la vita ne rimane il significato più profondo e diretto: dopo avere letto il romanzo, ci si sente meglio, più sicuri, più speranzosi. Il male che vediamo intorno a noi, che noi stessi facciamo quotidianamente, assume una prospettiva diversa e si riconcilia, in qualche modo, con l’universale fluire del tempo e della vita: c’è una giustizia celeste – ci dice Manzoni – e noi, contenti, lo seguiamo sulla strada di Cristo.

La poesia con cui Manzoni illumina alcuni momenti centrali del libro è, da questo punto di vista, emblematica.

La conversione dell’Innominato:

“Dio, Dio”, interruppe l’Innominato: “sempre Dio: coloro che non possono difendersi da se’, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi….? e lasciò la frase a mezzo.

La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare…..E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?….Chi è don Rodrigo?

Gli balenò in mente un altro pensiero. Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’preti; che fo io? perché morire? cosa m’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia….E se c’è quest’altra vita….! A un tale dubbio, a un tale rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppure con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo.

Le sofferenze e la fine di Don Rodrigo:

Stava l’infelice, immoto; spalancati; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra; l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.

“Tu vedi” disse il frate, con voce bassa e grave. ” Può esser gastigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te; forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rasserenato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione….d’amore!”.

Un secondo tema centrale, nel libro, è la sfiducia nelle masse contrapposta alla fiducia infinita nel singolo. Da vero conservatore, Manzoni conosce le folle, le teme e, nel profondo, credo le disprezzi. Sa quello che la follia degli uomini – storditi da qualche paura, idea, visione – può produrre.

nella chiesa di Sant’ Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panche. ” Quel vecchio unge le panche!” gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingono fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo , così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture.

Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarci occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ed altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura , le bisacce, accusavano di essere stranieri, e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti a furia di percosse, alle carceri.

Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire di uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. “Ecco se c’è il pane!” gridarono cento voci insieme. “Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame”, dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: “lascia vedere”. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. “Giù quella gerla”, si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tiepida fragranza si diffonde all’intorno.

Allo stesso tempo, però, Manzoni sa che l’uomo, preso singolarmente, è, in qualche modo, compartecipe di una particella divina. Anche nei cattivi, nei malvagi, c’è sempre qualcosa di buono. Da questo punto di vista, ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, signori e popolani sono sullo stesso livello. L’umile, poi, merita più attenzione, perché in questo mondo è penalizzato.

Solo un fazioso ideologo come Gramsci poteva scambiare questo atteggiamento per “compatimento”. A me sembra il contrario: c’è sovrabbondanza di vita interiore, nei popolani manzoniani che – alla fine – sono più saggi dei saggi (o qualcuno vorrebbe dire che il dottor Azzeccagarbugli risulta più dotato di vita interiore di Renzo?).

Un terzo punto, sempre presente nel racconto, è il sorriso ironico dello scrittore che, spesso alla fine dei capitoli, sorride del mondo, degli uomini e delle loro debolezze, di sè stesso (“I miei quattro lettori…”) e della vita. E’ una sorta di angolo filosofico che riempie il racconto e gli dà un’ulteriore anima di alta riflessione. Quanta saggezza, in Manzoni, quanto mondo visto, quante disillusioni e poi, alla fine, la comprensione che tutto andrà a posto, che la nostra vita quotidiana scorre nell’alveo di in un fiume ben più alto.

Ogni qual volta ho bisogno di fare risalire il mio livello di fiducia nel mondo (o, meglio, di non farlo scendere troppo in basso), torno a Manzoni e ai suoi personaggi, a Lucia, a Renzo, a Padre Cristoforo, all’Innominato, da sempre il mio preferito, per ritrovare, in loro, la luce della speranza, la certezza che il domani sarà migliore dell’oggi.

Per dare un senso, in definitiva, alla mia vita.

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