Tolstoj è, per me, il più grande scrittore in prosa: i suoi grandi romanzi mi commuovono fino alle lacrime, mi esaltano di un’esaltazione sana e sincera, mi fanno capire tanto di me e di tutti noi. La lettura della sua prosa mi trasporta in un mondo più alto, facendomi dimenticare le bassezze di quello in cui vivo: in fondo, è questo il senso della grande arte.
In queste settimane ho riletto, per la terza volta (1992, 2010), Anna Karenina e le sensazioni che ne ho ricavate sono state fortissime. Si tratta di un romanzo formidabile, solo leggermente inferiore – confermo l’idea che ne ho sempre avuto – alla perfezione di Guerra e pace: leggermente inferiore, dal mio punto di vista, perché qui Tolstoj cerca già, in alcuni punti, di filosofeggiare, di dimostrare delle tesi, uscendo dalla perfezione della narrazione fine a sé stessa che rappresenta, per me, la grandezza della sua arte. Tendenza non presente nel primo romanzo, accennata qui e che sarà ancora più forte in Resurrezione.
Che cosa mi affascina tanto, in questo libro?
Il quadro, innanzitutto: la società russa del secolo XIX descritta nei dettagli, scavata, amata e criticata – lo si capisce sempre, durante la lettura – dal nobile-ribelle, dall’ateo-credente, dal puttaniere (“io sono un puttaniere”)-romantico Tolstoj. I vizi e i vezzi, la forza e la grande debolezza di quel mondo sono descritti in modo magistrale, leggendo si entra letteralmente in un altro mondo.
Lo scavo psicologico dei personaggi, poi. Tutti, i principali ed i secondarii, hanno un loro mondo interiore, che Tolstoj descrive e segue nel suo sviluppo: ci sembra, da un lato, di conoscere Levin, Anna, Kitty e gli altri da una vita, intimamente; dall’altro, più importante, ci sembra di vedere descritti noi stessi. Eccezionale!
La prosa tolstojana è il collante di tutto: olimpica, maestosa, penetrate, acuta. Che stupore, il verso in prosa del grande russo; e che peccato poterlo leggere sono in traduzione.
Dei tanti personaggi, il mio preferito, per il suo essere sempre fuori posto, per i suoi interrogativi sulla vita, è Levin. Mi è sempre piaciuto molto anche Karenin, che mi è sempre parso più che altro una vittima. In questa lettura ho rivaluto Vronskij, che anni fa detestavo: non ne ho ritrovato più di tanto i caratteri frivoli e leggeri che un tempo mi sembravano predominanti.
Il problema dei problemi, naturalmente, rimane quello di definire se Anna è cattiva o buona. Tolstoj non prende posizione anche se la fine che fa fare alla sua eroina ha fatto pensare ad una condanna. A me la cosa non sembra così scontata: Anna muore non perché è colpevole, ma perché non ha saputo adattarsi al mondo che la circonda: muore come moriranno tutti gli altri, virtuosi e non virtuosi, conformisti o ribelli; anzi, muore forse meglio, in quanto con la sua morte espia in qualche modo la sua colpa.
Certo, l’ideale di Kitty e la figura di Levin, con la conversione della parte VIII, continuamente riaffermano qual è, per Tolstoj, la strada maestra, dalla quale è pericoloso discostarsi.
Tolstoj, il grande conservatore.