Abissi…

Leopardi e Marco Aurelio parlano, entrambi, di “abisso”.

Il primo, nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, introduce la metafora del “vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo” – simbolo di tutti noi – che, dopo avere faticato, superato torrenti e stagni, essere caduto e risorto, arriva “dove il tanto affaticar fu volto: “l’abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando il tutto obblia”. Un’immagine cruda, disperata, ripresa poi nei versi successivi dove non c’è luce di speranza, anelito di sogno: la fatica della vita (“questo vagar mio breve”) porta direttamente al nulla, alla disperazione, all’abisso che tutto ingoia senza lasciare speranza. L’abisso è la fine di tutto; noi, pastori erranti tra “sassi acuti ed alta rena”, non siamo in grado di capire il senso della nostra stessa esistenza; vaghiamo, soffriamo, ci dimeniamo e poi moriamo senza avere capito perché lo facciamo.

Ben diverso è il senso di “abisso” in Marco Aurelio: il grande imperatore, nel quarto libro dei suoi straordinari “Ricordi”, rammenta a se’ stesso che, nella vita, non è necessario cercare “luoghi solitari o dimore fra i campi”, ma è sufficiente “ritirarsi in se’ stesso in ogni istante”: “in conseguenza, elargisci a te stesso continuamente questo luogo di ritiro e rinnova la tua vita”. Perché, si chiede poi senza nessuna angoscia né affanno, dovresti sentirti contrariato?

Per la malvagità umana (gli innumerevoli uomini che hanno odiato sono tutti usciti ormai dalla vita: “cenere, tutti”)? Per una piccola gloria? E qui Marco Aurelio sale a vette inaudite e ci proietta in un mondo superiore: “allora puoi volgere lo sguardo alla celerità con cui l’oblio ogni cosa sommerge; volgere lo sguardo all’abisso infinito dei tempi, tanto prima di te quanto dopo la tua vita; considera il ripercuotersi d’una vana eco, che facilmente muta luogo; un’eco inconsiderata che dice il nome di chi è creduto glorioso. E considera anche com’è angusto lo spazio entro il quale quel nome circoscritto risuona. Non vedi che la terra tutta quanta è un punto? E non è forse minima parte di quel punto tale tua dimora?”.

Si esce dalla lettura di questo passo con un senso di tranquillità: l’abisso infinito dei tempi, che in questa prospettiva ci attende, non ha l’aria minacciosa che aveva in Leopardi; tutt’altro: il senso di inutilità della vita umana – che anche qui è molto forte – si diluisce in uno scorrere infinito del tempo, che tutto avvolge, relativizzandone la portata, la forza, la minaccia. Una diluizione temporale, quindi. Ma anche una diluizione spaziale, con l’incredibile notazione della terra come “punto”.

Ed ecco che la condizione umana perde la connotazione disperata che aveva in Leopardi ed assume un aspetto quasi di forza: una forza che non cancella, beninteso, la sua sostanziale evanescenza. Al contrario: riallacciandosi allo scorrere infinito, eterno del tempo ed alla inafferrabile ristrettezza della nostra visuale terrena, la forza della condizione umana è tale nella misura in cui l’uomo sa condividere il disegno superiore di cui noi siamo miseri attori.

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