Un grande (anti)italiano se n’è andato ieri. Piero P. è stato un protagonista della cucina italiana degli anni sessanta, settanta e ottanta. Prima a Milano, poi a Montecchio Precalcino è riuscito prima a creare e poi a difendere un modo italiano di fare alta cucina: ricerca estrema delle migliori materie prime, pochi ingredienti, nettezza del gusto, alta tecnica.
Non era stato facile iniziare (“quando ho iniziato – mi diceva – l’unica domanda che veniva fatta nei ristoranti italiani era: asciutto o in brodo?”), ma era stato ancora più difficile mantenere la linea dopo, quando l’Italia – sempre prona verso mode e ricette che vengono da fuori o che semplicemente sono nuove – aveva iniziato ad invaghirsi di Nouvelle cousine e, successivamente, addirittura di sifoni, cucchiaini e cose simili. Piero – un anti-italiano forte e vigoroso – non cedette e – dal suo ultimo ritiro padovano, dove lo conobbi nei primi anni Duemila – continuò con la sua linea: frittatina, tagliolini alle erbe, minestrone (con le verdure cotte tutte separate), polpettine fritte o in umido, pollo ripieno, casseula, fegato alla veneziana, tarte Tatin (nemmeno a Parigi così buona!) e chi ne ha più ne metta, in un tripudio di gusto, calore, felicità.
“In un piatto gli ingredienti – mi ripeteva spesso – devono essere al massimo quattro. altrimenti si perde la nettezza del gusto e si pasticcia solamente”. Il suo capolavoro, per me, rimangono le penne ai carciofi, sintesi di semplicità, di sapori, un vero miracolo di gusto. “Sono buone – gli disse qualche anno fa un cliente – ma che significato hanno?”. Ecco, la cucina del significato, dei fuochi d’artificio e degli effetti speciali privi di sostanza non era la cucina di Piero.
Per questo lo abbiamo tanto amato, per questo ci mancherà così tanto.