Marco Aurelio

A che cosa serve la filosofia? Mi sono fatto spesso questa domanda da quando, a scuola, ho iniziato ad addentrarmi in sistemi, pensatori, nomi e categorie che – come spesso succede – negli anni della giovinezza appaiono vuoti.

Bisogna avere vissuto, per capire a cosa serve la filosofia. E bisogna avere sofferto. Allora, la risposta a tante domande senza risposta può venire solo dai grandi del passato, che hanno vissuto e sofferto prima di noi e – dall’alto della loro sapienza – ci aiutano a capire.

Per me, Marco Aurelio è il più grande tra i grandi. Leggendo i suoi Ricordi nei momenti cupi della mia esistenza ho potuto respirare, ho trovato il senso del tutto. Più che con Sant’Agostino e con Kant, più che con Schopenhauer e con Croce. Certo, tutto lo stoicismo romano mi affascina e mi aiuta, ma la mia predilezione per il grande imperatore supera il mio amore per Epitteto, la mia ammirazione per Seneca; ha radici profonde che cercherò di spiegare.

In primo luogo, Marco Aurelio non ha scritto niente con l’idea di renderlo pubblico. I suoi Ricordi sono delle note che egli scriveva per sè stesso, per darsi delle regole di vita quotidiana, per riflettere sugli uomini, sul mondo, sul destino, su sè stesso. Di conseguenza, in ogni suo rigo non c’è nessun autocompiacimento, nessuna voglia di dimostrare, affermarsi, polemizzare: niente, solo mente e cuore, l’essenza dell’umanità.

Poi, Marco Aurelio non era un uomo qualunque. Quando scriveva, era l’imperatore romano in carica, un grado, una posizione, un insieme di poteri per noi oggi inimmaginabili. Le sue non sono riflessioni di un “filosofo”, pagato per pensare: sono riflessioni di un uomo d’azione, che ogni giorni deve comandare, punire, premiare, ingannare, dissimulare e che cerca il senso del suo agire. In questo, egli differisce totalmente da Platone, speculativamente ben superiore, il quale, quando tentò di applicare concretamente le sue idee politiche a Siracusa, fallì miserevolmente e fu costretto a salvare la pelle fuggendo precipitosamente. Un uomo d’azione che pensa, quindi: il punto di partenza per me più affascinante.

Non sappiamo con esattezza quando né dove Marco Aurelio abbia scritto le sue note. Alla fine del primo e del secondo libro, però, ci sono due intestazioni che ci aprono affascinanti orizzonti : Nel territorio dei Quadi, presso il fiume Granua e In Carnunto. E allora vediamo l’imperatore, solo nella sua tenda, dopo una giornata di battaglie, di lotte, di tensioni, sedersi e scrivere, passare dal piccolo del mondo di ogni giorno, al grande dell’eterno, dal particulare a Dio. E ne siamo affascinati e storditi.

Dei Ricordi, letti, riletti, annotati in diverse occasioni (1988, 2007, 2015, 2017) alcuni punti sono diventati centrali, nel mio modo di concepire la vita.

I pilastri del pensiero di Marco Aurelio sono, direi, due: il senso di fratellanza e di comune destino che accomuna gli uomini e l’ineluttabilità del destino umano.

Sul primo punto, l’imperatore scrive:

Al mattino comincia subito a dire con te stesso: avrò da fare con gente che mette il naso negli interessi altrui; con ingrati; con violenti; con furbi; con malevoli (…). Tutto questo accadde a costoro per ignoranza del bene e del male. Io, invece, che già ho potuto meditare sulla natura del bene e apprendere che esso è bello ; e del male, ch’è brutto; meditare sulla natura di colui che sta commettendo il male e apprendere che quell’uomo è mio affine, non certo per identità di sangue e di seme, bensì in quanto partecipe di una mente e d’una funzione che è divina; (…) io non posso adirarmi con un mio affine e neppure sentirmigli nemico. Siamo nel mondo per reciproco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto (II,1)

ama, ma davvero, gli uomini ai quali la sorte t’ha posto accanto (XI, 39).

Gli dei pur sono immortali, ma non sono contrariati perché, in così grande durata di tempi, dovranno comunque sopportare gente di tal genere e tanto numerosa, priva di qualsiasi dote positiva. Anzi, di più: ne hanno cura in ogni maniera. E tu ben presto dovrai finire, e fai tanto il difficile? Aggiungi un’altra cosa: anche tu appartieni al novero di quella gente priva d’ogni dote positiva. (VII,70)

E’ evidente che, se si entra in quest’ottica, la vita quotidiana cambia di prospettiva. E la prospettiva che si apre è quella giusta, quella che aiuta a vivere meglio, quotidianamente, oggi come duemila anni fa.

In VII,9 il concetto di fratellanza universale si fonde con il secondo pilastro, quello relativo all’ineluttabilità del destino umano. E si vola, se possibile, ancora più in alto:

Ogni cosa è profondamente intrecciata con le altre; e sacro il filo che tiene legate le cose. Nessuna, certamente, può dirsi estranea a un ‘altra. Congiunte anzi le une alle altre, cospirando in un ordine, danno ordine a un unico ordinato mondo. Unico infatti è l’ordinato mondo formato di tutte le cose, e Iddio unico che tutto compenetra; unica sostanza e legge unica; razionalità comune per tutte le creature fornite di mente, e verità unica, dato che vi è unica meta di perfezione che attende i viventi di natura affine e partecipanti alla medesima ragione

tutto ciò che accade, giustamente accade, scrive Marco Aurelio, riecheggiando Epitteto e tutto l’ideale stoico. Grande consolazione e grande guida per affrontare la vita, specialmente nei suoi momenti tragici.

Centrale, in questo senso, è V, 8, uno dei pensieri centrali – dal mio punto di vista – di tutta l’opera:

Si dice comunemente questa formula: Asclepio ha ordinato a costui di andare a cavallo; gli ha ordinato i bagni freddi; ordinato di andarsene scalzo. Ebbene, questa formula non è diversa dalla seguente: l’universale natura ha ordinato a costui una malattia, una storpiatura, la perdita d’un arto o qualche cosa simile.

In realtà nella prima fase la parola “ha ordinato” viene a significare un fatto di questo genere: ha ordinato a costui tale rimedio come atto a ottener la salute. E nell’altra l’accidente singolo è stato indubbiamente imposto a ciascuno come atto a ottenere l’adempimento del destino (…) accettiamo quanto viene dalla natura come accettiamo i precetti di Asclepio (…) devi amare qualunque cosa avvenga, anche se l’apparenza sia un po’ dura; il quale senso d’amore dovrà sorgere in te per via di un continuo riferimento al punto centrale: la salute universale, la prospettiva ed il benessere di Zeus. Sta di fatto che al tal dei tali quel certo caso non sarebbe avvenuto, se l’universo intero non avesse trovato giovamento per quanto avveniva.

Eccola, la soluzione ai tanti affanni della vita! Questa è la risposta migliore alle domande irrisolte che tutti noi – prima o poi – ci siamo posti. Questa è la strada da percorrere, per vivere serenamente ed in piena armonia con il mondo.

Da questi due tempi principali – presenti come un Leimotiv in tutta l’opera – discendono alcuni corollari, ad essi legati a doppio filo.

Il senso della brevità della vita, innanzitutto:

Non vivere come se ti fossero concessi anni diecimila o più. Il momento fatale incombe su te; finche ti dura la vita, diventa buono (IV, 17)

Ecco le caratteristiche d’una perfezione nel carattere: trascorrere i giorni nella convinzione che ciascuno sia il giorno estremo; non agitarsi, non stare inerte a dormire; non simulare (VII.69)

Tutte questo cose che vedi saranno dissolte e coloro che ne osservano la distruzione, pur essi rapidissimamente dissolti. E colui che sarà morto vegliardo per vecchiezza estrema, si troverà fatto uguale a colui che prima del tempo è morto (IX, 33)

La vacuità, poi, di ogni gloria terrena:

Contempla dall’alto: greggi senza numero, e senza numero religioni e riti, navi d’ogni genere che navigano in mezzo a bufere, a bonaccia, e la diversità della gente che nasce, che vive, che va via. Poi considera la vita di altri che i temi remoti vissero nel mondo, quindi la vita che sarà vissuta dopo di te, quindi la vita che oggi si sta vivendo in mezzo a popoli lontani. Quanti nemmeno conoscono il tuo nome! Quanti prestissimo lo dimenticheranno! Quanti che oggi ti innalzano con lodi, sùbito, forse prestissimo, ti copriranno d’improperi! Pensa quanto poco vale il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa (IX, 30)

Non dimentichiamo che chi scrive era l’Imperatore dei Romani, lo stesso che – in X,10 – paragona quello che lui sta facendo – il prendere dei Sàrmati – al ragno che prende una mosca, a chi prende una lepre o una sardella, un cinghiale o un orso: e sorride, pensando a come tutti si fanno belli per quello che fanno…

Che uomo, che imperatore e che pensatore!

In IV, 3 Marco Aurelio vola a livelli che – dal mio punto di vista – lo proiettano tra i più grandi di sempre. In questo capitolo c’è tutto il senso del pensiero dell’imperatore: la ricerca della pace interiore contrapposta alla vacuità del mondo esterno, il senso di leggerezza con cui devono essere affrontate le cose del mondo, l’abisso che tutto inghiotte, prima e dopo di noi.

Il grande imperatore rammenta a se’ stesso che, nella vita, non è necessario cercare “luoghi solitari o dimore fra i campi”, ma è sufficiente “ritirarsi in se’ stesso in ogni istante”: “in conseguenza, elargisci a te stesso continuamente questo luogo di ritiro e rinnova la tua vita”. Perché, si chiede poi senza nessuna angoscia né affanno, dovresti sentirti contrariato?

Per la malvagità umana (gli innumerevoli uomini che hanno odiato sono tutti usciti ormai dalla vita: “cenere, tutti”)? Per una piccola gloria?

E qui Marco Aurelio sale a vette inaudite e ci proietta in un mondo superiore: “allora puoi volgere lo sguardo alla celerità con cui l’oblio ogni cosa sommerge; volgere lo sguardo all’abisso infinito dei tempi, tanto prima di te quanto dopo la tua vita; considera il ripercuotersi d’una vana eco, che facilmente muta luogo; un’eco inconsiderata che dice il nome di chi è creduto glorioso. E considera anche com’è angusto lo spazio entro il quale quel nome circoscritto risuona. Non vedi che la terra tutta quanta è un punto? E non è forse minima parte di quel punto tale tua dimora?”.

Si esce dalla lettura di questo passo con un senso di tranquillità: l’abisso infinito dei tempi, che in questa prospettiva ci attende, non ha l’aria minacciosa che avrà in Leopardi; tutt’altro: il senso di inutilità della vita umana – che anche qui è molto forte – si diluisce in uno scorrere infinito del tempo, che tutto avvolge, relativizzandone la portata, la forza, la minaccia. Una diluizione temporale, quindi. Ma anche una diluizione spaziale, con l’incredibile notazione della terra come “punto”.

Ecco, datti pace, dice ad un certo punto Marco Aurelio a sè stesso. E noi lo diciamo a noi stessi, con la stessa passione, la stessa compassione e lo stesso amore per il mondo, la vita ed i nostri simili che pure, spesso, facciamo tanta fatica a capire.

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