Fontamara

Dopo trentadue anni esatti (i miei appunti di lettura dicono: ” 3-4 agosto ’88”) ho riletto Fontamara, un libro che, da adolescente, mi aveva impressionato molto.

Ho avuto sensazioni contrastanti ma, in generale, piuttosto deludenti.

Le parti migliori del libro mi sono parse quelle dove si insiste sul fato, sul destino, sulla ineluttabilità della condizione dei cafoni. Qui Silone vola alto e riesce a coinvolgere ancora oggi con un messaggio universale di compassione e pianto.

L’altra grande anima del romanzo – quella dove la plebe meridionale prende forma, si materializza e “assurge a protagonista della storia” (Russo) – mi è parsa invece datata, in qualche modo succuba della visione politica, sempre presente in sottofondo. Oggi non ripeterei, insomma, quello che scrivevo a sedici anni, contrapponendo Fontamara a Vino e Pane, il secondo grande libro di Silone: “in Fontamara, solo il finale è di quasi pura politica; in Vino e pane, invece, tutto il romanzo è una propaganda politica”. Oggi mi sembra che la pesantezza della visione politica infici in qualche modo, in tutto il libro, la spontaneità del racconto e questo ha reso la lettura, a tratti, addirittura pesante.

Evidentemente, gli anni passano per tutti: per Fontamara, certo, ma anche per me, certamente meno propenso di un tempo agli entusiasmi relativi a temi sociali o politici (“fantastico!”, chiosavo senza nessuna moderazione, commentando nel 1988 il X capitolo, che oggi non mi ha provocato alcun sussulto particolare).

La lettura di tanto Tolstoj, che giudica le masse da ben altri punti di vista; la meditazione su Ortega y Gasset e la lettura di tanto altro hanno cambiato, evidentemente, i miei occhi.

E parafrasando Addison, in questi giorni, rileggendo Silone, mi chiedevo: “ma questi cafoni cosa hanno fatto per noi?”.

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